Leuca, de finibus terrae
dove tutto incomincia
di ALBERTO SELVAGGI
fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno.it
Leuca - Non sai neppure come ci sei finito. Qualcosa evidentemente ti ha portato qui. È il sentiero dell’esperienza. Leuca non è soltanto una località turistica glamour, è sbagliato quanto è scritto sulle guide e nelle enciclopedie. È la fine del mondo, estremità della terra che si fa penisola, e pertanto devi scegliere, sopra alle scalinate infinite che guardano due mari, Adriatico e Ionio, che si rimescolano nel perenne conflitto. Scegliere se vivere o morire.
ORIENTAMENTI - Leuca non ha altra funzione che questa: niente costoni accecanti che si inabissano, niente spiagge e anfratti marini di trasparenze divine, niente ville ottocentesche della nobiltà salentina, no Lido Azzurro, «il Ciolo» col ponte dei tuffi a rischio, niente Gibò, discoteca edificata sotto ai piedi dei prìncipi, la vicina Pescoluse, «Maldive del Salento», «caseddhi» contadineschi, crostacei infilzati agli spiedi che sfrigolano, linguine alle patelle ed estratti di nettare d’uva che tinge, niente abitanti (circa mille) che ti sorridono, «devi tornare indietro, è all’incontrario, hai sbagliato via». Soltanto la scelta tra due emisferi acquei che tutto originano, lì nelle onde davanti a te, creste lievi e sinistre che si stirano come elastici in questo momento per tutti i momenti della vita. E sia Satana oppure Cristo, o l’Anticristo emissario del primo, non fa una gran differenza. Conta che sei qua per scegliere, a Leuca «de finibus terrae», come dicevano i latini, a Leuca termine di tutte le vite.
Parecchie persone, compresi salentini, si sono ritrovati in questa condizione davanti ai due mari che lambiscono Punta Ristola, gemellata con l’analogo costone bretone. E poco conta se il vero confine tra Ionio e Adriatico cada nel raggio otrantino: non importa a nessuno, lo apprendi dalla cartografia, «ah, bene», e butti via. È qua il Faro oltre il quale non c’è più niente. È qua la Madonna del Santuario proiettata nel cielo dalla violenza di un capitello corinzio.
QUASI MESSIA - Il mio poeta messianico è stato una massaggiatrice di scuola orientale nata in Salento, maestra Marcella. Nella Masseria e Spa LuciaGiovanni, alle porte di Lecce, mentre stendeva la massa ferma di pietre bollenti sul letto della mia schiena, nell’ombra d’ambra ha incominciato a parlarmi delle magie di Leuca e dei loro effetti di rinascenza. Così, sulla scorta di una fiducia che si faceva sapienza, anch’io come dieci, come cento, mille, centomila, milioni sono venuto a Leuca a immergermi nel battesimo. Seguendo i passaggi della coscienza.
Il borgo si sta riprendendo dalla tre giorni di Sunshine Fest, che ha aperto ufficialmente la stagione turistica. Non c’è folla lungo le strade, ci sono persone. Di qua a Gallipoli c’è un balzo di dimensione notevole. È quello che evinci guardando in faccia due fratelli così diversi, pur generati dalla stessa Mamma Salento; quello che commenti con la solita frase, «sembrano nati da due famiglie che non c’entrano niente».
La salentinità assume una condizione universalistica più che separatista. Il lungomare Cristoforo Colombo è percorso da cocktail bar, locali, ma hanno poco a che fare col divertimentificio dell’ultimo avamposto della Magna Grecia, storica meta di discotecari, tra i quali tanti baresi, di spaccio di droghe da house music e techno. Ci sono il Bar del Porto per il preserata, i vari Martinucci, Gricò, Cafè do Mar, Hosteria del Pardo, Costa di Ponente, l’Ice on the road, cornetteria presa d’assalto mentre albeggia. Ma target e obiettivi sono differenti.
Perché lo sanno tutti, anche se non ci pensano, che il Santuario mariano impone dall’alto del promontorio japigio il suo sguardo fatalista. Proprio come l’ultima stazione che incornicia l’Acquedotto Pugliese, e collega il luogo sacro al porto turistico, lungo la scalinata monumentale di 284 gradini che nessuno, si dice, è in grado di contare senza perdersi in sé. Effetto attribuito anche alle colonne della cripta otrantina.
DAL PARADISO - Quando arrivi sopra questa piazza, annunciata dalle due chiavi della Croce petrina, sei sbarcato su un altro pianeta. Non è l’effetto cartolina di Punta Ristola, Punta Mèliso. È un universo. C’è Maria di pietra sulla colonna del sagrato senza confini, corrispettivo femmineo di Sant’Oronzo che guarda dalle vertigini della sua altezza la piazza profana di Lecce. C’è il Faro, bianco come i vestiti di Dio, che lancia i suoi fasci a 26,5 miglia. Ci sono basole che esaltano il formicolare delle tue caleidoscopiche scarpe da tennis, la luce del carparo settecentesco contenuta a stento dagli occhiali rosso specchio, e ogive e archi di andamento romano, un negozio di oggetti di fede, rosari, adesivi, riproduzioni azzurre e cipria antico della statua della Madonna con Bambino del maestro Manzo da Lecce, del quadro sull’altare maggiore della Basilica Pontificia, sparse ovunque nel culto mariano, chiesette di ville comprese. Il Museum, la pinacoteca, sale congressi, la fondazione Figlie di Santa Maria di Leuca made in Salento, su via Sturzo il ristorante con le zuppe di pesce, la Casa Maris Stella e l’albergo, l’Oasi, satelliti di un turismo religioso datato millenni: pellegrini, eremiti, santi, papi come nel 2008 Benedetto XVI. E sotto i gomitoli del cielo tutto promana nudità di cristianesimo delle origini, quando Gesù cercava nel Padre il suo senso.
Sul sagrato di Maria de finibus terrae, sorto al passaggio di Pietro sui resti del tempio a Minerva – facci caso – camminano quasi tutti con gli occhi a terra, perfino il bassotto al guinzaglio di padroni albini tedeschi. Di qua all’orizzonte vedi tutto azzurro e tutto verde e questo azzurro e questo verde sono l’espressione del celestiale e della linfa vitale che la mistica medievale chiamava viriditas. In questa «anticamera del Paradiso», come lo chiamano i leuchesi, senti che abbiamo una portentosa potenza dentro che si chiama preghiera. E che la spiritualità è una cosa troppo grande per non essere vissuta. Penetri le onde e l’abisso che scuote di flutti perpetui. Vedi i dieci mondi che si inseguono come lune nel tempo dell’universo. E senti il fuoco della verità che ti arde negli occhi e vedi questo fuoco sul mare, tu pastore errante della scogliera che cerchi la verità del mondo, che cerchi risposte alle domande e non le trovi, tu che vuoi spingerti oltre, oltre de finibus terrae. E allora, bambino newtoniano che gioca con le conchiglie sulla spiaggia mentre l’insondabile oceano della verità si stende davanti a te, saprai con certezza che non potrai dimenticare Leuca.
FINE E PRINCIPIO - Leuca – nessuno nel regno la chiama Santa Maria di Leuca – è un fazzoletto nelle proprietà di Castrignano del Capo, comune col quale persiste un «dialogo aperto». Lo scirocco la imbeve, è cinta da ville erette come corni nell’immaginifico: la Mellacqua turrita, San Giovanni, Meridiana, Episcopo. Le «bagnarole» di legno per i sollazzi estivi le hanno distrutte i decenni e giusto qualche superstite in muratura ricorda che le signore possedevano ognuna una fetta di mare esclusiva. Le grotte no, tutte lì, sempre lì culle di reperti paleolitici, iscrizioni greche, latine, come occhi di mare splendenti, a stravolgere nelle orbite allucinogene i parametri dei colori fissati da Goethe. C’è quella detta del Diavolo perché ruggisce, il terzetto fantasmagorico delle Cazzafri, e la Bambino coi resti preistorici di un elefante e di un rinoceronte, e i Giganti, e la Presepe, e quando il sole agonizza nell’orizzonte tutte fanno a gara per berne i barbagli che dilagano come sangue per vampiri della scogliera. Più all’interno c’è la Torre dell’Omo morto a guardare l’arrivo dei turchi e dei saraceni, con lo scalo antico dei pescatori ai piedi. E lassù, a 48,60 metri, 102 dal livello marino, c’è un tizio che si chiama Antonio Maggio, il guardiano del faro, intento a guardare gli uomini che approdano all’estremo di questo lembo di terra, per rendersi conto che è il punto da cui tutto incomincia.
Pubblicato il 06/06/2014