30 marzo 1935 - Un salvataggio insperato
Capita spesso che, nei giorni di marzo, lo splendore del cielo e la mansuetudine delle acque, qui a Leuca, susciti ispirazione nei poeti e nei pittori, e spinge incauti giovani a subire la sensazione di freschezza, che il miraggio delle onde procura, e a gettarsi in mare, mentre urge nelle membra il turgore del risveglio primaverile. Ma c'è, anzi c'è sempre stata, una categoria di persone, che guardavano a queste apparizioni della bella stagione con interessi meno estetici, ma certo con attesa più sofferta e voluta. Queste persone sono i pescatori, che hanno guardato ai segni del tempo e del mare, sempre con meno gaudio, ma con quella partecipazione e rischio di chi ha qualcosa da spartire. Se oggi, pur con i mezzi che la tecnica mette a disposizione di tutti, anche della pesca, forse non ci si azzarderebbe ad inoltrarsi nella fossa ionica, per strappare il salario giornaliero dell'esistenza all'alveo marino; una volta, anche in tempo di marzo, pur con soli vela e remi, bastava che arrivasse la placida calma di una giornata serena e senza crucci, e che il tempo presentasse i segni di una costanza di almeno alcuni giorni, ad invogliare e costringere a spingersi lontano, consci del rischio certamente, ma dimentichi dei pericoli. Così è stato di molti, come per molti di quelli il rischio si trasformò spesso in audacia, e il pericolo in dramma e tragedia. Il 30 marzo del 1935 una ciurma di cinque pescatori: Pietro Stasi, Luigi Licci (Baffone), Francesco Colaci (Zzi Carlu), Gennaro Cassiano e Francesco Cassiano (Mori), stretta dai languori di un mare sopito e senza fiato e dal bisogno, che l'inverno trascorso, come ogni inverno, aveva reso più acuto, si inoltrò sotto un soffio leggero di brezza, prima degli albori, sulla fossa, a circa trenta miglia dalla costa per la pesca del conzu. Spirava un gradevole vento da est. Ci fu il tempo per calare e per incominciare a tirare. Ma ecco che, prima di mezzogiorno, il leggero vento improvvisamente cessò di spirare, mentre il mare si distendeva in una calma sinistra, vellutata e lattiginosa.
Dopo appenza mezz'ora, un fronte nuvoloso, bigio e verdastro, apparve a nord-ovest. In pochi attimi il cielo fu completamente coperto e un vento rabbioso incominciò a tirare da maestro, sconvolgendo la superficie marina che si corruscò e si frantumò in marosi e cavalloni sempre più alti e minacciosi. Il capo barca, il giovane Cassiano Francesco, diede il segno di mollare tutto a mare e cercare di issare la vela, per sfuggire alla furia del vento, che, di momento in momento, si rafforzava, e poter guadagnare la riva, prima che fosse troppo tardi. Il Maestrale, si sa non peerdona e tutto sparpaglia e scaraventa lontano dalla costa salentina. Allora, la baia di Leuca offre un sicuro porto di rifugio non solo alle barche, ma anche alle navi e ai piroscafi di stazza non elevata. Li vediamo anche oggi, nelle pungenti giornate di maestrale, gettare l'ancora per più giorni, ad aspettare che la furia del vento si quieti. Ma la piccola imbarcazione, in quel lontano trentacinque, sembrò non essere fortunata. Riuscì a guadagnare quasi la costa; la intravide, ma non potè avvicinarsi. Infatti, appena issata la vela latina, puntando verso ovest e verso nord, a zig-zag, i cinque riuscirono a tenersi di striscio sotto vento. Anche se la barca veniva sopraffatta quasi dalle ondate e si riempiva d'acqua. Per tutte le dieci ore, finchè la speranza di uscirne con le proprie braccia dava forza e coraggio, i pescatori cacciavano, in una lotta impari e furibonda, tutta l'acqua che potevano, per non colare a picco. E sembrava quasi che l'avessero fatta. Racconta uno di quegli uomini d'avventura: "Quella striscia di terra lontana, che appariva e scompariva, tra il flusso e il riflusso delle onde e le sferzate di acqua e di neve, fu per noi la conferma che non eravamo perduti. Il voto alla Madonna di Leuca, nella speranza della salvezza, stava già per sciogliersi in ringraziamento nei nostri animi. Ma una raffica di vento ci portò via il lembo di vela a cui era legata la nostra vita".
Così, in vista della terra, proprio mentre sembrava che in fondo tutto era stato un brutto momento di una difficile giornata, su quell'orizzonte schiumoso, l'imbarcazione e i cinque uomini rimasero in balia della furiosa tempesta. I remi non servivano. La prepotenza del mare irrideva alla loro esile tenuta; inoltre, l'acqua aumentava di livello nella barca e le braccia erano impegnate. Non c'era più niente da fare. L'esile speranza scompariva e stava per annegarsi in quel fosco uragano d'acqua e di vento. Qualcuno piangeva, imprecava, prometteva, in un dubbioso pensiero di riuscita, di abbandonare un giorno la pesca. I più giovani masticavano tabacco, per non abbandonarsi allo sconforto. Ormai la barca era senza governo. Il giorno, se giorno potevano dirsi quegli scialbi e lividi baluginii di un cielo plumbeo e bavoso, stava per finire. Intanto, pe tutta quella giornata, il paese, percoso da si funesta intemperia, non rimase chiusa in casa. dai moli, dal faro, dal semaforo, si guardava, si sbirciava, se tra uno sbuffo e l'altro poteva intravedersi, nel rigurgito delle acque, un qualcosa di terrestre, di umano, una sagoma che facesse pensare, tra nuvoli e marosi, a qualcosa come una barca sull'orizzonte.
Nella baia si erano ricoverati alcuni bastimenti e piroscafi. Ad uno di questi, il più grosso, di nome Annunziata Madre, si rivolse una delegazione di pescatori, guidata da Galati Cosimo (Nochi) e Michele Morciano (Pizzarrone), per spingerlo alla ricerca dei dispersi. Il capitano del piroscafo rifiutava di esporre il proprio equipaggio e l'imbarcazione, ma la tenacia, l'insistenza dei pescatori lo indussero a promettere di accettare di mettersi alla ricerca, purchè qualcosa dei dispersi apparisse all'orizzonte. Intanto, già due caccia della Marina Militare di Taranto incrociavano a largo per la ricerca e il salvataggio. Dal faro qualcuno volle vedere, in un puntino che sobbalzava a cinque miglia della costa, il segno dei dispersi; lo stesso credette di vedere un marinaio, fissato sul palo del piroscafo per scrutare l'orizzonte con il cannocchiale: quel puntino, quel segno come un feluca un pò più scura del biancore della bava del maestrale, potevano essere loro. Allora il capitano fece muovere la nave. Dopo tre ore di navigazione, proprio quando già la ciurma degli sventurati da poco aveva perso la vela e veniva spinta inesorabilmente verso sud-est in un risucchio senza più ritorno, fu avvistata e salvata. Il freddo, la fame, la paura, l'angoscia di quella lunghissima giornata erano scavati sul volto e negli occhi spalancati di quegli uomini. Qualcuno volle piangere. Tutti, dopo l'abbraccio dei compaesani che erano a bordo del piroscafo, chiesero di fumare. Rientrarono in porto al calar delle ombre, sotto i riflettori delle unità militari che nel frattempo erano sopraggiunte. Fra i salvati ci fu uno che, oltre alla gioia di sentirsi ridato alla vita, ebbe una gioia altrettanto intensa e cara appena sbarcato, quella di aver dato, proprio in quel giorno, alla vita la sua prima creatura, il primogenito di una famiglia di nove figli, Michele Cassiano.
Intanto in quella giornata funesta una trentina di imbarcazioni non videro mai ritorno.
Vito Cassiano